Vangelo
25 Un dottore della Legge si alzò per metterLo alla prova: “Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?” 26 Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?” 27 Costui rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. 28 E Gesù: “Hai risposto bene; fà questo e vivrai”. 29 Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?” 30 Gesù riprendendo la parola, disse: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. 32 Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 33 Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. 34 Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: ‘Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno’. 36 Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?” 37 Quegli rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Và e anche tu fà lo stesso” (Lc 10, 25-37).
Chi è il mio prossimo?
La Legge ordinava di amare il prossimo come se stessi. I
Giudei, però, restrinsero il concetto di prossimo, in modo da annullare quest’importante obbligo. Gesù viene a dare il vero significato alla Legge.
I – Il principale oggetto del pensiero, ieri ed oggi
“Si è rotto il motore dell’automobile, è finita l’energia elettrica, le banche sono entrate in sciopero, è stato lanciato un nuovo tipo di software, finalmente la scienza ha scoperto come prevenire il cancro”… e, se avessimo tempo e spazio, potremmo riempire pagine e pagine con gli argomenti che nel mondo attuale assorbono esageratamente l’attenzione dell’umanità. Dio ha smesso di essere la preoccupazione principale di quasi tutte le persone e al suo posto è subentrato uno sfrenato egocentrismo. L’agitazione è diventata la nota dominante della vita quotidiana sulla faccia di tutta la Terra, le relazioni umane e la stessa struttura della vita sociale ormai non facilitano più l’elevazione del pensiero a Dio.
All’epoca di Gesù il genere umano si trovava in una situazione completamente diversa a questo riguardo; nonostante la grande decadenza nella quale era immerso, più grande era l’impegno relativamente al conoscere idee. Nel popolo giudeo, per venire al concreto, il desiderio di avere spiegazioni dottrinali, soprattutto quando queste erano strettamente legate alla religione, era intenso e contagioso. Un esempio tipico di questa condizione dello spirito lo possiamo vedere col dottore della legge che, nel Vangelo di oggi, si alza per fare una domanda a Nostro Signore. Per quanto il suo intento non fosse interamente esente da seconde intenzioni, la questione esposta da lui lascia trasparire quale fosse il tenore degli argomenti trattati nelle conversazioni comuni di quel periodo storico.
Contesto del dialogo tra Gesù e il dottore della Legge
Questo fatto narrato da Luca deve essersi svolto all’incirca nel mese di ottobre dell’anno 29, pertanto nell’ultimo periodo della vita pubblica di Gesù, un po’ prima della festa dei Tabernacoli. Era da poco terminato l’addestramento dei settantadue discepoli nei diversi villaggi della Pereia, regione calma e un po’ appartata, nella quale non accadeva mai nulla di paragonabile alle ostilità caratteristiche della Giudea. Gesù aveva scelto con divina saggezza la regione dove essi avrebbero dovuto realizzare le loro prime esperienze apostoliche. Per di più, in quei luoghi, gli apostoli e discepoli non avevano nessun legame di amicizia o di parentela con i loro beneficiati, come in Galilea, e questo rendeva più facile la loro azione. Probabilmente, i fatti del Vangelo di oggi si verificarono a Gerico e si inseriscono nell’atmosfera di gioia che regnava ovunque, dovuta alle eccellenti novità trasmesse da loro e commentate dal Divino Maestro, poiché, “anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome!” (Lc 10, 17). Quei semplici pescatori, che avevano abbandonato il commercio del pesce per lanciare le reti nel mare delle anime, furono eletti non per prevedere, e neppure solamente per confermare, ma per essere gli anfitrioni di una nuova era.
È in questo quadro storico che si svolge il dialogo contenuto nel Vangelo di oggi.
II – Malevole intenzioni dei dottori della Legge e dei farisei
25 Un dottore della legge si alzò per metterLo alla prova:
“Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?”
La domanda fatta dal dottore della Legge è in sostanza la stessa riferita sia da San Matteo, che da San Marco (cfr. Mt 22, 35; Mc 12, 28). Tuttavia, nel leggere i tre Vangeli, ci rendiamo conto che si tratta di scene differenti. Questa di San Luca, relativa a questa Liturgia, come è stato detto anteriormente, deve essersi svolta a Gerico e, tenendo conto del costume ormai consacrato durante le esposizioni e predicazioni realizzate nelle sinagoghe – per cui tutti i partecipanti assistevano seduti e, quando vi era una domanda da fare, questa doveva essere pronunciata in piedi – tutto indica che si fosse svolto all’interno di questo ambiente.
Il desiderio mal dissimulato di questo dottore della Legge, di cogliere Gesù in errore, traspare nell’essenza e nella forma della domanda. Se fosse riuscito nel suo intento, avrebbe soddisfatto il suo amor proprio. Probabilmente si trattava di un fariseo ancora non investito delle intenzioni malevole di coloro che, più tardi, avrebbero cercato un pretesto per ucciderLo. San Cirillo è categorico nell’affermare che “alcuni ciarlatani percorrevano tutto il territorio giudaico lanciando accuse contro Cristo e dicendo che Egli qualificava come inutile la Legge di Mosé e insegnava dottrine nuove. Volendo, dunque, quel dottore della Legge indurre Gesù a dire qualcosa contro la Legge di Mosè, si presenta tentandoLo, chiamandoLo Maestro, non tollerando di ricevere insegnamenti. Siccome il Signore aveva l’abitudine di parlare della vita eterna a tutti quelli che venivano a Lui, il dottore della Legge si serviva delle sue stesse parole tentandolo con astuzia e non ascoltando nient’altro se non quello che Mosè aveva insegnato. Per questo, Gesù gli ha risposto: ‘Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi tu?’”.1 L’obiettivo di questo dottore della Legge era quello di mettere alla prova le conoscenze di Gesù e stabilire con Lui una polemica dalla quale, essendo lui dottore, sarebbe uscito trionfante. Questa supposizione si deduce dalla seconda domanda fatta dallo stesso personaggio a Gesù. Il fatto che questo abbia indirizzato la conversazione su un punto della questione molto discusso tra i rabbini, rende evidente questo suo intento.
Perfino i farisei si preoccupavano della vita eterna… E oggi?
26 Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi
leggi?” 27 Costui rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”.
In Marco troviamo una domanda identica fatta da un tale ricco, al quale Gesù risponde con un elenco sintetico delle virtù obbligatorie per tutti (cfr. Mc 10, 17 ss). Nel caso in questione, il dottore della Legge non ottiene da Lui se non un’altra domanda come risposta. Il Divino Maestro gli propizia la pratica della virtù dell’umiltà, rimandandolo al Primo Comandamento della Legge di Dio, fatto sgradevole per un teologo di fama: quello di dover ritornare al Catechismo. Questo procedimento di Gesù non avrebbe potuto essere migliore, poiché in questo modo facilitava al suo interlocutore un passo ulteriore nella sua vita spirituale, vedersi nella circostanza di ripetere la frase che ogni giudeo recitava due volte al giorno: “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze ” (Dt 6, 5). Siccome non avrebbe fatto bella figura a dire così poco, egli decide di aggiungere un complemento, per poter far così notare davanti agli altri la sua erudizione: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19, 18). Con sapienza commenta questo versetto il famoso Maldonado: “Con mirabile senno, Cristo rimanda alla Legge quel dottore che fingeva ignoranza e pretendeva di esplorare la sua dottrina. Era solito procedere in questo modo quando Gli facevano domande capziose, per attenuare l’effetto sgradevole della sua risposta. Rimandava, dunque, alla Legge, ed era questa che condannava chi di lei si vanagloriava”.2
Se ci soffermassimo a considerare una per una le parole del Deuteronomio (6, 5) non ci sarebbe spazio sufficiente. Basti sapere che il verbo impiegato nelle versioni latine, non è amare ma diligere. Questo termine riguarda l’amore provato, che risulta dalla somma della volontà spirituale e del sentimento.
Nonostante il deplorevole stato morale e spirituale del popolo in quelle circostanze storiche, le persone si ponevano il problema della salvezza eterna: “…che devo fare per possedere la vita eterna?”. In maniera molto differente rispetto ai nostri giorni, poiché chi è che oggi si preoccupa del suo destino dopo la morte? Oggigiorno, l’impegno per conservare non solo la salute, ma la bellezza, il raggiungimento di una buona condizione finanziaria, ecc., assorbe tutte le attenzioni; il nostro futuro, dopo che avremo oltrepassato le barriere del tempo è materia di totale disinteresse. Così, i padroni non si prendono cura della formazione spirituale dei loro dipendenti; i genitori, di quella dei loro figli; i professori, di quella dei loro alunni; ecc. Rompono con l’importantissimo dovere che Dio ha imposto loro di essere maestri verso gli altri…
San Basilio, rispondendo alle aspirazioni dei fedeli del suo tempo, ci ha lasciato una bellissima interpretazione riguardo all’amore verso Dio: “Se qualcuno ci chiederà come si può acquisire l’amore divino, risponderemo che quest’amore non si apprende. Non apprendiamo da altri a rallegrarci della presenza della luce, né ad amare la vita, né ad amare i nostri genitori o i nostri amici; né, molto meno, possiamo apprendere le regole dell’amore divino; ma c’è in noi un sentimento intimo, il quale ha in sé le sue cause intrinseche e ci predispone ad amare Dio. E chi obbedisce a questo sentimento mette in pratica la dottrina dei precetti divini ed raggiunge la perfezione con l’aiuto della grazia divina. Amiamo naturalmente il bene; amiamo anche i nostri vicini e parenti; oltre a ciò, diamo spontaneamente ai benefattori tutto il nostro affetto. Se, dunque, il Signore è buono, e tutti desiderano il bene, quello che si perfeziona con la nostra volontà risiede naturalmente in noi. Lui, anche se non Lo conosciamo per la sua bontà, per il semplice fatto che da Lui procediamo, abbiamo l’obbligo di amarLo sopra tutte le cose, in quanto nostro principio. È anche un benefattore maggiore rispetto a tutti quelli che si amano naturalmente. Di conseguenza, il primo e principale comandamento è quello di amare Dio”.3
Chi più prossimo che Gesù?
28 E Gesù: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”. 29 Ma quegli,
volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”
Il povero dottore della Legge si vedeva in una situazione d’inferiorità – molto utile, del resto, per la sua vita spirituale – e cercò di giustificarsi, poiché non vi era niente di peggio del silenzio davanti al pubblico che lo circondava. Qualsiasi sciocchezza sarebbe andata bene. Lo stesso Pilato, in circostanze analoghe, preferì anche lui chiedere: “Che cos’è la verità?”.
“Dunque, il dottore fa finta che quello che sta chiedendo non è una cosa così banale e risaputa da tutti, ma un punto difficile e controverso tra i più insigni dottori […]. D’altro canto, Sant’Ambrogio, Teofilatto, Eutimio e (secondo San Tommaso) San Cirillo sono dell’opinione che egli abbia proposto formalmente questa questione pensando che prossimi erano soltanto i giusti rispetto a lui, che si considerava giusto”.4
In sintesi, nel suo desiderio di dimostrare che la sua prima domanda aveva piena ragion d’essere, enuncia quest’altra a cui, al giorno d’oggi, qualsiasi bambino di catechismo risponderebbe facilmente. Invece, in quel contesto storico costituiva una questione inestricabile. Le origini familiari, le classi sociali, il regionalismo, la nazionalità, la razza, erano a quei tempi fattori di separazione a compartimenti stagni. Non scordiamoci di menzionare la terribile discriminazione della schiavitù, consacrata in tutte le legislazioni dell’epoca. Ora, il popolo più colpito da questo spirito di separatismo era il popolo giudeo. Basta sfogliare il Talmud per verificare gli estremi a cui arrivò contro i gojim, ossia, contro tutto ciò che non era giudeo. Molto diffuso era il giudizio che solo quelli del popolo eletto erano chiamati alla salvezza eterna. Inoltre, basandosi sul Levitico: “non serberai rancore contro i figli del tuo popolo” (Lv 19, 18), non concepivano che l’amicizia potesse superare i limiti della nazionalità.
Però, “da questo non ne consegue che egli abbia fatto la domanda con sincerità e desiderio di apprendere, perché, anche se ignorava, era convinto di sapere” 5 e a tal punto che la Scrittura non lasciava margine di dubbio su come trattare il non-giudeo: “Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; amatelo come voi stessi perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto” (Lv 19, 33-34).
D’altro canto, vediamo questo dottore in una situazione paradossale: “In quello stesso istante si trovava un prossimo straordinariamente speciale, ossia, lo stesso Dio! Per questo, nel fargli questa domanda, fa intendere chiaramente […] che non conosceva il suo prossimo, perché non credeva in Cristo, e chi non conosce Cristo disconosce la Legge; perché, ignorando la verità, come può conoscere la Legge che annuncia la verità?”.6
Forse a questo lo aveva portato il suo orgoglio poco o niente affatto combattuto.
“Elogiato dal Salvatore, per aver risposto bene, il dottore della Legge si riempì di superbia, non credendo che esistesse qualcuno che potesse essere il suo prossimo, come se non esistesse chi fosse in grado di equipararsi a lui in giustizia. Per questo dice: ‘Ma egli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: E chi è il mio prossimo?’. Lo assediavano, per così dire, alternativamente, i vizi: dopo la fallacia con cui aveva fatto la domanda, tentando, cade nell’arroganza. Col chiedere: ‘Chi è il mio prossimo?’, già si mostra privo di amore verso il prossimo e, di conseguenza, si rivela privo di amore divino, poiché, non amando il fratello che vede, non può amare Dio che non vede”.7
Gli scribi e i farisei – che alimentavano fra loro, giorno per giorno, la propria indignazione contro i gentili, come pure contro la stessa plebe giudaica – avrebbero udito dal Maestro una chiara e irrefutabile lezione, piena di calore, su come si deve trattare il prossimo…
III – La parabola: Chi è, insomma, il mio prossimo?
30 Gesù, riprendendo la parola, disse: “Un uomo scendeva da
Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono,
lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”.
Quante scuole e corsi di didattica si moltiplicano in ogni dove! Comunque, è impossibile superare quella utilizzata dal Divino Maestro, nella sua vita pubblica. La creazione della figura del Buon Samaritano è semplicemente geniale. La stessa descrizione delle circostanze geografiche nelle quali il caso occorre è di un colorito così reale che per poco non lo giudichiamo un vero e proprio fatto storico.
Gerusalemme dista da Gerico, pressappoco, trenta chilometri e la differenza di altitudine tra l’una e l’altra città raggiunge quasi i mille metri. Nell’intraprendere il cammino partendo da Gerusalemme, dopo aver percorso circa tre chilometri, si giunge a Betania, dopo di che termina la vegetazione e comincia per un lungo tratto una regione molto rocciosa. Ad una certa altezza, oggi si trova una locanda chiamata “Buon Samaritano”, il che sembra per far giustizia alla parabola. Tutto porta a credere che, di fatto, debba essere stato questo il luogo descritto dal Signore, poiché nel corso dei secoli si moltiplicarono in questo luogo gli assalti, e non soltanto di notte, ma in piena luce del giorno. Inoltre, esistono ancora, non molto lontano da quest’albergo, le rovine di una fortezza, prova evidente di quanto dovesse essere pericoloso il luogo.
Il Vangelo cerca sempre di essere sintetico, motivo per il quale molti aspetti, magari secondari, delle sue narrazioni non passano alla Storia. Per questo, non è un’esagerazione immaginarci quanto i dettagli psicologici e geografici furono attentamente elaborati dal Signore.
Per questa via scende, pare, un giudeo, poiché, non essendo stata menzionata la sua razza, per esclusione si può dedurre trattarsi soltanto di un connazionale del levita e del sacerdote sopraggiunti dopo l’assalto. Invece, come vedremo, quest’imprecisione ha una profonda ragione d’essere. Dalle caverne, o da dietro alle rocce, spuntano alcuni assalitori che spogliano l’uomo e, avendo lui certamente reagito, gli sferrano duri colpi, abbandonandolo quasi privo di vita in una pozza di sangue, impossibilitato, pertanto, a proseguire il suo percorso normale. Una volta delineata la drammatica situazione di quest’uomo e la fuga dei banditi, la scena si arricchisce di altri tre personaggi: un sacerdote, un levita e un samaritano.
Il sacerdote e il levita violano la Legge, per il fatto che hanno il cuore indurito
31 “Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada
e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. 32 Anche un levita,
giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre”.
La nazionalità giudaica e la rispettiva religione erano i più elevati presupposti d’onore di tutto il popolo eletto. Ora, quel ferito possedeva queste caratteristiche essenziali, e si vede chiaramente quale fu l’intenzione del Divino Maestro nell’idearlo come vittima, poiché il sacerdote nell’approssimarsi gli darà solo un’occhiata e passerà oltre. Si deduce che egli aveva terminato il suo servizio nel Tempio e ritornava a Gerico dove risiedevano molti di quelli della sua categoria. Non poteva essere più provvidenziale quest’incontro fortuito. La Legge determinava come obbligo importante soccorrere qualsiasi ferito, soprattutto in stato preagonico.
Religione, nazionalità, abbandono, niente ha mosso quel duro cuore di un ministro di Dio chiamato all’eroismo della carità. Non ci è difficile immaginare i ragionamenti che probabilmente ha elaborato a partire da quel momento lungo tutto il percorso, per tranquillizzare la sua tormentata coscienza: “È un uomo qualsiasi! Uno sconosciuto, senza titoli. È meglio che neanche mi fermi, per non abbassarmi dalla mia condizione”. Erano le ragioni dettate dall’orgoglio mal combattuto, e non così raro, in quegli uomini che avevano per vocazione la missione di estirpare questo stesso vizio negli altri e in se stessi. Inoltre, se l’umiltà fosse stata la sua compagna, non gli sarebbe costato nulla, anche solo con semplici parole, cercare di confortare quel povero ebreo. Una piccola sosta, senza fermarsi più di tanto, fu tutto il suo sforzo. Assueta vilescunt, si dice in latino; egli si era assuefatto alla routine ormai intiepidita delle sue funzioni liturgiche nel Tempio, come era anche intossicato dall’ipocrisia degli scribi e farisei.
Non gli doveva essere estraneo un certo calcolo delle spese da effettuarsi, nel caso egli si proponesse di soccorrere quella vittima derubata, spogliata e insanguinata, neppure avrebbe potuto contare su una ricompensa e, meno ancora, su un recupero del denaro utilizzato. Quel ministro non si sarebbe potuto aspettare nulla come retribuzione per la perdita di tempo, l’incomodo, il danno, ecc. Si manifestò con forza il suo carattere interessato di un vile pragmatismo davanti a quel dramma.
All’estremo opposto della bontà, troviamo nel corso della Storia cuori duri, crudeli e difficili da lasciarsi intenerire dai bisognosi. Nulla li muove a compassione. Lì “per caso, scendeva” un esempio vivo di quest’ insensibilità dura come la pietra.
Quella scena, inframmezzata da gemiti che imploravano soccorso e misericordia, ispirava di più ripulsa e nausea che pena, in quel cuore pervaso d’amor proprio.
Però, la Legge era esplicitamente contraria ai suoi sentimenti d’egoismo (cfr. Es 23, 5), e lui non avrebbe potuto abbandonare un suo fratello, soprattutto in quelle circostanze.
Le stesse considerazioni sarebbero servite a caratterizzare il comportamento identico del levita che, subito dopo, passò per di lì. Entrambi probabilmente avevano lasciato il Tempio alla fine del loro orario di lavoro e scendevano a Gerico, città che ospitava la metà dei servitori religiosi.
Misericordia del samaritano
33 “Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto
lo vide e n’ebbe compassione. 34 Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo:
‘Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno’”.
Completamente differente fu la reazione del samaritano. Senza tener conto dell’odio razziale che violentemente li separava, nonostante si trattasse di un suo nemico, la sua incompatibilità religiosa si trasformò, nel medesimo istante, in commiserazione . Il Vangelo raccoglie i meravigliosi dettagli della divina parabola elaborata da Gesù per il dottore della Legge: il samaritano si manifesta un eroe della carità a partire dal suo smontare dal giumento, per prestare in loco tutte le cure possibili a quei tempi, conducendo la vittima ad un alloggio, fino a contrarre un debito con l’oste, affinché questi dispensasse tutte le cure che poteva al povero giudeo. Si capisce, dal contratto proposto e accettato, che egli era un mercante di fiducia e molto stimato dal padrone della locanda.
36 “Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che
è incappato nei briganti?” 37 Quegli rispose: “Chi ha avuto
compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.
Di nuovo Gesù risponde al dottore della Legge con un’altra domanda, sembrando a prima vista desideroso di deviare un po’ dalla sostanza della tematica proposta dal consulente. Quest’apparente deviazione, intenzionalmente condotta a buon fine dal Divino Maestro, è una chimera che attira l’attenzione della maggior parte dei commentatori, dando loro l’occasione per sollevare le più svariate ipotesi. Mettiamo dunque in evidenza la più saggia e lucida di queste:
“A mio modo di intendere, Cristo vuole assolutamente dimostrare in modo generale che ogni uomo è nostro prossimo; ma lo fa in un modo che si adatta a quel dottore con cui stava conversando. Questi pensava che solo i giusti, o solo gli amici, o almeno solo i Giudei, erano il suo prossimo. E le stesse parole della Legge gli hanno fornito l’occasione di errare, perché in ebraico prossimo significa lo stesso che amico e compagno. Cristo ha voluto, dunque, liberarlo da quest’errore e obbligarlo a riconoscere e confessare che prossimo non era solo il giudeo verso il giudeo, ma anche il samaritano nei confronti del giudeo, in altre parole il nemico nei confronti del nemico. E se lo stesso nemico era prossimo per il nemico, ogni uomo deve considerarsi prossimo riguardo all’altro. Dimostrò questo con la migliore e la più efficace delle argomentazioni, ossia , di fatto, facendo vedere che il nemico era stato prossimo verso il nemico, cioè, il samaritano verso il giudeo, poiché aveva fatto quello che è caratteristico del prossimo, cioè aiutare. Per questo Cristo ha proposto la parabola con l’esempio di un samaritano”.8
Nella stessa direzione, fa la seguente considerazione un noto commentatore moderno:
“La domanda di Cristo è stata fatta con intenzione speciale. Il dottore della Legge Gli ha chiesto chi era il ‘prossimo’ per lui. E Cristo [a sua volta], ha chiesto: Chi ha agito come ‘prossimo’? In questo modo, con un esempio pratico, ha fatto vedere che ogni uomo è ‘prossimo’ per tutti gli uomini. Ragion per cui deve essere ‘prossimo’ a lui in tutte le sue necessità. È il paradosso orientale che serve da massima pedagogia. Tale è stata la lezione del magistero di Cristo”.9
Ha tutte le ragioni Maldonado nel fare questa sua analisi, poiché non era tanto esplicito per un giudeo il concetto di prossimo, per varie ragioni: per la sua storia e per la sua Legge, prima di tutto. Quando i Giudei si mescolavano con altri popoli, finivano sempre per cadere nell’idolatria. D’altra parte, basti considerare come la Terra Promessa si localizzava tra mare, deserti e montagne, separando, geograficamente, il popolo giudeo dagli altri. Di qui l’essere molto ristretto per loro il vero significato di “prossimo”. E se tra loro si ritenevano fratelli, con gli altri, vivevano in un’antipatia istintiva portata, non rare volte, fino all’odio.
Al di là di queste circostanze, il popolo giudeo possedeva una missione universale. A lui era stato affidato il tesoro spirituale di cui si sarebbe dovuta alimentare tutta l’umanità.
Di qui questa bellissima parabola composta dal Divino Maestro, che si allontana un po’ dalla morfologia delle altre, nelle quali il simbolismo si estende su tutti i sostantivi e aggettivi. Essa costituisce un esempio effettivo e affettivo di amore a Dio, senza il quale non esiste Religione, e di amore al prossimo, senza il quale non c’è amore a Dio.
Chi dice di amare Dio, ma non ama il suo prossimo, oltre a mentire, disobbedisce alla Legge divina e si dimentica del suo Preziosissimo Sangue versato sul Calvario. Questo amore deve essere universale e non possiamo appoggiarci su pretesti, apparentemente legittimi, per non praticarlo, come il sacerdote e il levita della parabola. Essi certamente erano incaricati di missioni buone e da queste ritornavano alle loro case, però, procedettero in malo modo con il bisognoso.
Non pochi autori applicano la parabola allo stesso Gesù Cristo, con molta devozione. Non sarà di cattivo gusto se la applichiamo a noi stessi, chiedendoci quali sono stati, in generale, i nostri comportamenti e reazioni di fronte ai bisognosi di qualsiasi specie.
1) SAN CIRILLO, apud SAN TOMMASO D’AQUINO.
Catena Aurea. In Lucam,c.X, v.25-28.
2) MALDONADO, SJ, Juan de. Comentarios a los Cuatro Evangelios.
Evangelios de San Marcos y San Lucas. Madrid: BAC, v.II, 1951,
p.545.
3) SAN BASILIO, apud SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit.
4) MALDONADO, op. cit., p.546.
5) Idem, ibidem.
6) SANT’AMBROGIO. Tratado sobre el Evangelio de San Lucas.
L.VII, 70. In: Obras. Madrid: BAC, 1966, v.I, p.379.
7) SAN CIRILLO, apud SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., v.29-37.
8) MALDONADO, op. cit., p.548.
9) TUYA, OP, Manuel de. Biblia Comentada. Evangelios.
Madrid: BAC, 1964, v.V,p.839.
Estratto dalla collezione “L’inedito sui Vangeli” di Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP.
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